Ad oggi posso dire che io ho toccato il fondo.
E che sono risalita.
Il mio non era un dolore come gli altri, né una sofferenza lacerante ma passeggera, di quelle che ti colgono di sorpresa.
Era indifferenza, era apatia, era un vero e proprio girone infernale in cui coltivavo il nulla, e aspettavo che le ore passassero, e l'una valeva l'altra. Non contava più niente.
Ho toccato il fondo quando ho pensato di volerlo toccare anche fisicamente, quando speravo che una lama bastasse, quando credevo che farla finita mi avrebbe salvata.
Ricordo la mia indecisione in piedi davanti al lavandino di casa; mi guardavo allo specchio, dritta negli occhi pieni di lacrime: "Vai, Sara, ce la fai" mi ripetevo.
Se sono ancora qui non è perché sapevo che me ne sarei pentita, ma perché non ho avuto il coraggio di farlo.
Volevo morire, e ora non me ne vergogno più. Perché io dalla morte ho reimparato a vivere.
Non ero me, ero triste, ero vuota.
Non c'era più niente per cui valesse la pena combattere, per cui valesse la pena restare, per cui valesse la pena soffrire. Non c'era speranza. Solo vuoto.
Ma non l'ho fatto. Sono rimasta.
Ed ora sono qui. Io sono la prova vivente che andrà meglio.
Non per forza subito. Ma andrà meglio.
Oggi posso dire a voi: non commettete questo errore, perché la vita è imprevedibile, meravigliosa, è un respiro a polmoni pieni.
Vale la pena scoprirla fino alla fine.
E non scherzate col dolore, non riducetelo a qualche lacrima, non confondete la depressione con la tristezza, non sminuite: essere depressi è una malattia,
e la cura non è non esistere più. Quando mai la cura migliore ad una malattia è la morte?
La depressione vi uccide lentamente senza che ve ne rendiate conto, diventate un'altra persona. Non provate più nulla, vi sentite solo fuori posto e inutili, vi convincete che non c'è più bisogno che voi restiate in questo mondo.
Nella mia mente ho sempre visualizzato il dolore come il sintomo della verità, e ho sempre pensato che fallisci nei confronti di un dolore quando non scopri questa verità, quando non sfrutti, non strumentalizzi questo dolore per imparare qualcosa di nuovo su di te.
È come se una cosa iniziasse a farci male nel momento in cui viene toccato il tassello di una verità mancante e non troviamo il coraggio di chiedere a questo dolore cos’ha da
dirci sulla nostra persona, cos'ha da insegnarci.
Il rischio è confondere la nostra persona con questo dolore, non affrontandolo più.
Credo che a tutti capiti di sentirsi crollare senza un vero e proprio motivo.
Così, nell'impotenza, tra un sorriso e l'altro, prende quella cosa allo stomaco, una malinconia, una tristezza, che non si riesce più a dire niente, non si riesce nemmeno più a fare un sorriso finto. Si resta lì, bloccati tra decine di sguardi che ci circondano, tra le mura di casa, tra le parole dei genitori che in quel preciso momento sembrano così lontane.
Essere sensibile vuol dire percepire un tono di voce distante durante una telefonata, riconoscere l'ansia, la paura e la tristezza nella faccia degli altri. Essere sensibili vuol dire fare caso a tutto, e con "tutto" intendo veramente qualsiasi cosa: un fiore sconfitto dal vento, un cane solo, un colore diverso nel cielo, un sorriso più sentito, una parola colorata in mezzo a tante parole anonime. Essere sensibili vuol dire vivere dieci, cento, mille volte ogni giorno. Chi è sensibile se litiga con qualcuno si tortura per ore ed ore pensando alla sensazione che ha fatto provare all'altra persona.
A tutti sarà capitato di sentirsi inadatti alla vita: tante responsabilità sulle spalle, ma le spalle non sono ancora così grandi da farvi sentire sicuri.
Capita di sentirsi superflui, fuori luogo in ogni contesto o facilmente sostituibili.
Di sentire una vocina nella notte farsi largo nel silenzio che sussurra nell'orecchio un semplice "non sei abbastanza". Ed è questa insicurezza, questa paura di sbagliare, questo sentirsi inferiori rispetto ad una situazione o ad una persona a fregarci.
Perdiamo così un’infinità di possibilità.
Come superarlo?
Non c'è una pozione magica, possiamo solo imparare ad accettare le vittorie e le sconfitte.
Una sconfitta può essere una vittoria se da essa traiamo un insegnamento.
Non esiste vincita o perdita, è tutto nella nostra testa, e oggi se ho un bicchiere riempito a metà decido di considerarlo mezzo pieno e non mezzo vuoto.
Da anni ricerco la perfezione: so che questo lato del mio carattere potrà portarmi in alto, dove ho sempre voluto arrivare, ma so anche che questa ossessione non mi darà automaticamente la felicità.
La felicità si guadagna nel momento in cui si inizia a cogliere le vittorie come tali e non solo come sfumature delle mie sconfitte.
Sara 3B
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